di Gianfrancesco Vecchio

Sommario:1. Considerazioni metodologiche. 2. Possibile individuazione nello Stato del responsabile ultimo del pagamento degli emolumenti ai lavoratori obiettori sospesi. 3. Segnali di contraddittorietà alla luce della pure affermata necessità, per il legislatore, di tenere in considerazione i dati scientifici del momento.

1. Considerazioni metodologiche. Prima entrare nel vivo della trattazione, corre assolutamente l’obbligo di ringraziare l’amico e Collega Prof. Vincenzo Baldini per avermi dato l’opportunità di portare in questa sede Accademica, che condividiamo da tanti anni, e in questa occasione, di evidente rilevanza, l’opinione del civilista, relativamente ad una vicenda sulla quale la mia attenzione è quanto mai concentrata sin dall’inizio e, per “dall’inizio”, non posso che intendere dai primi DPCM del secondo Governo Conte di fine febbraio 20201. 

Sin da subito si precisa che questo intervento sarà costituito da una premessa che appare indispensabile soprattutto per chiarire il metodo, se di metodo si può parlare, che è parso opportuno utilizzare in questa occasione.
Del resto, l’ampiezza, varietà e complessità degli argomenti coinvolti, uniti all’ovvia limitazione temporale necessaria per dar spazio a tutti gli intervenienti, impongono qualche chiarimento al riguardo. 

Ad essa, si cercherà di far seguire l’esame di due aspetti specifici delle sentenze in esame, tra i molteplici che pure appare possibile trattare.
Dunque, con specifico riguardo ai rapporti tra obbligo vaccinale o, probabilmente con più esattezza, tra la pandemia da virus Sars Cov 2 e la Corte costituzionale, mai come in questo caso può dirsi che si è di fronte a un “processo” – si utilizza qui questa espressione nel suo senso più semplice e atecnico, quello cioè di una serie di eventi concatenati – che ha avuto un inizio ma che, al momento, può ben dirsi assai lontano da qualsiasi cosa che possa considerarsi una fine. 

Appare possibile situare l’inizio di questo processo nella decisione n. 127/20222, in cui la Consulta si è trovata per la prima volta a confrontarsi con norme comunque correlate al periodo cosiddetto Pandemico, precisamente quelle riguardanti la quarantena imposta ad alcuni soggetti definiti, con una certa approssimazione, “contagiati”. 

In quell’occasione la Corte finì per denotare una certa carenza di nozioni tecnico scientifiche che, pure, dovrebbero essere indispensabili se, abbandonandosi il campo del puro diritto, ci si impegni ad affrontare quello della disciplina medico- scientifica. 

La questione non può che essere toccata di sfuggita, malgrado la sua evidente importanza, anche alla luce di alcune considerazioni che verranno svolte con riguardo al secondo aspetto specifico oggetto di questa relazione.
Dunque, in quella sentenza, la 127/2022, alcuni osservatori hanno notato un’indebita e ricorrente commistione tra i concetti di Virus, che sappiamo chiamarsi Sars-Cov 2 e malattia, che sappiamo essere cosa diversa, e denominarsi Covid 193. 

In effetti, quella decisione ha lasciato in qualche modo in sospeso, perché non ci si sente proprio di poter dire che abbia legittimato, la figura del cosiddetto “malato asintomatico”4 che, sino a qualche anno fa costitutiva un evidente ossimoro che non trovava alcun utilizzo nel linguaggio della comunicazione medico-scientifica mentre, come si è visto, negli ultimi tempi ha contribuito ad incidere pesantemente sulle nostre vite5.
Questa circostanza è stata fatta presente da una difesa all’udienza del 30 novembre 2022, con un’articolata e documentata istanza istruttoria che chiedeva la nomina di uno o più esperti ai sensi delle norme integrative del processo davanti alla Corte Costituzionale, affinché potessero fornire quelle informazioni di cui, in qualche modo, i giudici avevano manifestato di difettare. 

Purtroppo l’istanza non è stata accolta.
All’interno del “processo” di cui si è parlato sopra, si situano senz’altro le decisioni 14, 15 e 16 del 2023 ma, e su questo sembra comunque utile portare l’attenzione, esse non rappresentano che una parte di un fenomeno invero atipico, costituito da una sorta di “pioggia” di istanze di rimessione che hanno coinvolto la medesima previsione di legge (in sostanza il D.L. 44/2021) in uno strettissimo lasso di tempo. E’, ovviamente, ben noto che la possibilità di presentare richiesta di rimessione per sospetta incostituzionalità avverso una norma, non viene certo preclusa in generale dalla circostanza che la Consulta ne abbia rigettata una precedente. 

Tuttavia, non è dato ricordare la circostanza in cui circa venti istanze di rimessione nei confronti del medesimo provvedimento si siano realizzate in un così breve lasso di tempo e, proprio questo, determina alla circostanza che la Corte dovrà nuovamente pronunciarsi sulla questione il 4 aprile 2023 e ancora nel maggio successivo6. 

E, anche dopo queste decisioni, non potranno dirsi comunque esaurite le Ordinanze di rimessione presentate e, contemporaneamente, l’importanza del tema continuerà anche a svilupparsi nelle sentenze di merito, come avvenuto anche recentissimamente, con decisioni che potrebbero porsi in profondo contrasto con quanto in prima battuta statuito dalla Consulta (il riferimento, da ultimo, è alla già notissima decisione del GUP Militare di Napoli del 10 marzo 20237 che, peraltro, si inserisce in un filone non certo secondario di decisioni8). 

2. Possibile individuazione nello Stato del responsabile ultimo del pagamento degli emolumenti ai lavoratori obiettori sospesi. Quanto fin qui osservato, dovrebbe costituire una sorta di “punto nave” di questo viaggio che ci troviamo a compiere, volenti o nolenti, e da tale posizione si sviluppano le considerazioni che si intende svolgere in questa sede. 

Ciò, a partire da quel singolare comunicato del 1° dicembre 20229 che, destinato ad anticipare i contenuti delle decisioni nn. 14, 15 e 16 2023, è risultato assai meno chiaro di come invece apparso a molti e, soprattutto, inidoneo a rendere adeguatamente comprensibile la posizione dei giudici nell’attesa delle decisioni che, effettivamente, hanno un po’ tardato. 

Una volta che, il 9 febbraio 2023, le decisioni sono state pubblicate, se ne è rilevato, a prima lettura, un aspetto particolarmente utile ad un approccio adeguatamente critico.
Ci si riferisce ad una frase, contenuta al termine nell’ultima parte della motivazione della decisione n. 15, che rappresenta una sintesi idonea a permettere alcune riflessioni che, al momento, non risultano svolte altrove. 

Scrive quindi la Consulta nel punto sopra indicato:
Posto cioè che l’erogazione dell’assegno alimentare rappresenta per il datore di lavoro un costo netto, senza corrispettivo, non è irragionevole che il legislatore ne faccia a lui carico quando l’evento impeditivo della prestazione lavorativa abbia carattere oggettivo, e non anche quando l’evento stesso rifletta invece una scelta – pur legittima – del prestatore d’opera” (sottolineatura di chi scrive).Dunque, il 30 novembre 2022, il sottoscritto era presente in veste di uditore in qualche modo “qualificato”, avendo firmato diversi Amici Curiae 10 poi accolti, durante l’udienza di discussione presso il Palazzo della Consulta.
Tra i numerosi interventi della difesa erariale, risultò particolarmente impresso nell’uditorio quello dell’avvocato dello Stato De Giovanni che, nel mezzo di una difesa del suo dante causa tutta intesa a rivolgere parole di ammirazione, forse un po’ fuori luogo, nei confronti dei giudici costituzionali, si dichiarò quasi impressionato oltre che dispiaciuto dall’ardire di alcuni colleghi di contro parte che avevano avuto il coraggio di parlare, proprio con riferimento alla sospensione delle retribuzioni per i lavoratori che avessero rifiutato di sottoporsi alla vaccinazione, di “ricatto”, se non, addirittura e più chiaramente, di “ricatto di Stato”.
In realtà, più si studiano soprattutto le citate decisioni nn. 14 e 15 e più sembra possibile osservare che ci sia un convitato mai nominato in esse, e cioè l’adeguata valutazione del se si possa o meno parlare, con specifico riferimento alla sospensione della retribuzione per il lavoratore che rifiuti di sottoporsi alla vaccinazione, proprio di una forma di “ricatto di Stato”. 

Per procedere nell’analisi della questione, si ritiene opportuno eliminare, dalla riflessione che si propone, alcuni aspetti del ragionamento della Corte che non appaiono contestabili: 

  1. Si afferma che retribuzione o altro emolumento non possano essere messi a carico del datore di lavoro in assenza di controprestazione, alla luce del fatto che il datore di lavoro, sospendendo il lavoratore non vaccinato, ha rispettato la legge. La premessa del ragionamento, il datore di lavoro ha applicato la legge, non rende criticabile la conclusione secondo la quale non è tenuto a pagare alcunché.
  2. L’assegno alimentare non spetta al lavoratore non vaccinato sospeso perché, la disciplina che regola tale istituto prevede che esso sia dovuto quando la sospensione è libera scelta del datore di lavoro che decide, in presenza di procedimento disciplinare a carico del lavoratore medesimo, di sospenderlo in attesa dell’esito del procedimento stesso. Anche in questo, caso non si individuano contestazioni da farsi ai giudici della Corte, semmai, piuttosto, ai giudici rimettenti, i cui quesiti potevano ragionevolmente essere formulati meglio11.

Il cuore della questione, però, per come si intende ricostruirla in questa sede, era e sarebbe dovuto essere un altro e sintetizzabile in questa domanda: 

Può il legislatore, al fine – sappiamo solo teorico, anche se sul punto non rileva – di prevenire un contagio, mettere un lavoratore in condizione di non poter mantenere se stesso e la sua famiglia rispettando la sua indiscutibile libertà di scelta di rifiutare un trattamento sanitario (art. 32 e anche art. 1 e 36 Cost.)? 

Al contrario di quanto detto sopra, appare consequenziale ritenere che qui la risposta non possa che essere negativa perché, altrimenti, verrebbe meno la stessa “legittimità” della scelta, come riconosciuta anche e proprio dal Giudice delle leggi. Si propone la seguente ricostruzione della fattispecie esaminata: 

a) illavoratoreesercitailsuodirittodinonvaccinarsi(setalenonfossenonsi vede come la Consulta possa qualificarlo come “scelta legittima”); 

b) lo Stato, per prevenire il contagio lo tiene lontano dal lavoro, in maniera dichiaratamente temporanea, visto che il rapporto è mantenuto in vita, e dispone che il datore di lavoro non possa subire un decremento economico da questa sua legittima scelta liberandolo dall’obbligo di versargli qualsiasi tipo di somma. 

Tuttavia, è a questo punto che sembra possibile osservare come i giudici rimettenti si siano dimenticati di chiedere e, si direbbe, che i Giudici Costituzionali si sono dimenticati di dire, se avrebbe potuto considerarsi legittima e quindi libera, la scelta di non vaccinarsi quando da essa sarebbe dipesa la perdita della normalmente fondamentale, se non unica, fonte di sostentamento economica del lavoratore e, assai spesso, della sua famiglia12. 

Non appare oggettivamente contestabile che la scelta stessa non sarebbe stata libera, e quindi legittima, laddove avesse comportato questa conseguenza e ciò, a maggior ragione, alla luce della considerazione indiscutibile che dalla perdita di qualsiasi tipo di retribuzione non si sarebbe determinata alcun genere di prevenzione dal contagio.
Questo esito, infatti e sempre in teoria, dipendeva ovviamente dalla mancata frequentazione da parte del lavoratore dei luoghi di lavoro. 

Pertanto, o la mancata retribuzione (non a carico del datore di lavoro), rappresentava e rappresenta un ricatto di Stato – tecnicamente, un’estorsione13 – per spingere il lavoratore ad effettuare una scelta solo in apparenza legittima e libera, in quanto chiaramente “obbligata”, per evidenti ragioni di sopravvivenza sua e dei suoi cari, o si poteva e si doveva riconoscere che la norma è, quanto meno, monca. La sua incostituzionalità, cioè, riposerebbe nel non aver garantito la legittimità e libertà di quella scelta da parte del lavoratore prevedendo, a carico dello Stato (non vi sono, in effetti, altri soggetti coinvolti), l’obbligo di provvedere a tutelare economicamente il lavoratore affinché potesse effettuare la scelta stessa in maniera “libera” (subendo, comunque, le già non piccole conseguenze dell’allontanamento da un posto di lavoro che, come ben noto e riconosciuto in ambito nazionale, a partire dall’art. 1 Cost., e internazionale, per tutti, la Dichiarazione Universale dei Diritti umani, art. 23, costituisce parte integrante della sua dignità personale e del suo ruolo sociale). 

Alla luce di queste considerazioni, può conclusivamente osservarsi sul punto che, da un lato, la Corte Costituzionale avrà, e anche a breve, più di un’occasione per integrare il proprio orientamento riflettendo sulle conseguenze assolutamente non conformi al dettato costituzionale di una decisione che salvi una normativa che lascia, colui che esercita una “scelta legittima” e proprio per averla esercitata, privo del sostentamento minimo necessario. 

Dall’altro lato, non può escludersi che gli attuali Governo e Parlamento, preso atto della linearità logica della ricostruzione qui sviluppata, si muovano nel senso di riconoscere il rimborso degli stipendi illegittimamente non versati ai lavoratori obiettori. Questo eviterebbe anche che i singoli giudici ordinari prendano atto, come certo è loro permesso fare, della legittimità della restituzione nei giudizi in essere, ma con evidente ingiusta discriminazione di tutti coloro che, pur avendola subita, non hanno avuto la forza e gli stessi mezzi economici per opporsi ad essa. 

In fondo, una decisione politica in tal senso, anche se ex post, permetterebbe di cancellare quella gravissima macchia di Governo e Parlamento precedenti, rappresentata dall’aver permesso un comportamento ricattatorio di fatto nei confronti della categoria sociale cui, a parole, quelle della Costituzione in particolare, si è soliti affermare il massimo rispetto e la massima protezione: i lavoratori. 

3. Segnali di contraddittorietà alla luce della pure affermata necessità, per il legislatore, di tenere in considerazione i dati scientifici del momento. Il secondo aspetto delle decisioni in esame, di cui si intende trattare, ricorre sia nella n. 14 che nella n. 15 (si ricorda che la n. 16 è una decisione di inammissibilità per problemi procedurali), riguarda l’affermato principio secondo cui le scelte del legislatore, basate sulle evidenze scientifiche disponibili al momento, debbano essere soggette ad una continua verifica alla luce del mutamento delle stesse che, pure, ne costituisce una caratteristica normale e ricorrente14. 

Al riguardo, per esempio, la decisione n. 14 ribadisce come la “…discrezionalità deve essere esercitata dal legislatore alla luce «delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia (così, la giurisprudenza costante di questa Corte sin dalla fondamentale sentenza n. 282 del 2002)» (sentenza n. 5 del 2018)”. 

Sul punto, sembrano possibili due serie di considerazioni, da un alto, una riguardante l’opportunità e/o correttezza di accettare una scelta legislativa come interamente basata su dati scientifici quando, in effetti, sono in gioco valori costituzionali e quando, per prendere tale decisione, risultano essere considerati esclusivamente dati provenienti da organi sì scientifici, ma tutti rientranti nell’alveo del settore pubblico, così come gestiti da soggetti giunti al loro vertice a seguito di vicende strettamente intrecciate con la compagine governativa, se non direttamente determinata da questa15 . 

Dall’altro lato, può e deve svolgersi una verifica del rispetto del medesimo criterio enunciato dalla Corte all’interno delle sue decisioni.
Per l’economia di questo contributo è necessario limitarsi al secondo aspetto sopra indicato che, comunque, presenta profili di rilevante interesse. 

Prescindendosi, cioè, almeno in questa sede, dalla credibilità e completezza dei dati utilizzati dalla Consulta a sostegno delle sue decisioni, corre l’obbligo di considerare che essi sono sostanzialmente posizionati in un periodo storico, l’aprile 2021 che, per la velocità con cui si sono svolti gli eventi e la rilevanza dei mutamenti delle conoscenze che si sono realizzate, è oggettivamente lontanissimo dal novembre 2022 e, ancor più, dal gennaio 2023 nei quali le decisione della Corte sono state assunte. 

Si vuole, cioè, evidenziare una contraddittorietà tra la ribadita affermazione della necessità di seguire l’evoluzione dei dati e delle conoscenze scientifiche, e la scelta di non considerarle nella medesima decisione, pur se giunta quasi dopo due anni dai dati su quali si afferma sarebbe stata basata la scelta legislativa. 

Questo per una molteplice serie di ragioni. 

La decisione di imporre l’obbligo vaccinale prima ai sanitari e poi ad altre categorie di lavoratori, è entrata in vigore a giugno 2021 ed è proseguita sino a fine ottobre 2022.
In questo periodo, quindi, questi soggetti hanno subìto, oltre la sospensione dal lavoro, anche quella dallo stipendio che sopra si è criticata per altri motivi, per perseguire una finalità che sarebbe stata rappresentata dalla “prevenzione dal contagio del virus Sars-Cov 2” che, si riteneva potesse ottenersi o con la vaccinazione o con l’allontanamento dal lavoro. 

Tuttavia, senza dilungarsi nell’illustrazione della molteplicità di evidenze scientifiche che hanno, nel periodo indicato, completamente dimostrato la falsità dell’assunto di base, si vogliono richiamare due eventi non suscettibili di interpretazione. 

Nella conferenza stampa di fine anno del 22 dicembre 2021 il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha avuto modo di dichiarare pubblicamente di essere a conoscenza che due dosi di vaccino erano inidonee a garantire la protezione dal contagio16 mentre, nell’audizione tenuta nella speciale Commissione Covid del Parlamento Europeo del 10 ottobre 2022, la delegata per la Pfizer Sig.ra Janine Small ha, tra l’altro, affermato come non fosse stato condotto alcun studio specifico da parte della società produttrice del vaccino sulla possibilità di immunizzare dal contagio17. 

La prima circostanza, rispetto alla quale è anche evidente che la conoscenza fosse già stata acquisita in un momento anteriore alla dichiarazione, anche se si ignora quando, avrebbe potuto e dovuto essere tenuta in conto da un giudice “attento alle evoluzioni scientifiche”, almeno per evidenziare che tutte le sospensioni dal lavoro sino ad allora realizzate non avevano, per tabulas, effettivamente perseguito lo scopo che le aveva giustificate. Questo ne avrebbe dovuto comportare l’illegittimità, con il conseguente pieno diritto alla restituzione delle retribuzioni sin ad allora negate. 

Restituzione, si badi, da porre comunque a carico dello Stato, ma con l’argomentazione diversa, rispetto a quella illustrata supra, dell’illegittimità dal punto di vista tecnico della normativa in quanto inutile, a meno di non volersi sostenere che un simile abnorme sacrificio si sarebbe dovuto porre a carico dei lavoratori anche una volta conosciutane l’inutilità. 

E’ vero poi che, per i sanitari fu introdotta, a dicembre 2022, l’obbligatorietà della terza dose18, anche se non sono mai state fornite motivazioni scientifiche del perché la stessa avrebbe raggiunto lo scopo mancato dalle prime due, tuttavia quella stessa disposizione dava ai destinatari ben cinque mesi dal ricevimento della seconda dose per adeguarsi. 

Prescindendosi, allora, dalla circostanza di lasciare liberi di contagiare per legge i destinatari per un periodo fino a cinque mesi (immaginandosi una seconda dose ricevuta nell’imminenza dell’entrata in vigore del nuovo obbligo), anche per queste sospensioni e mensilità non pagate, sarebbe dovuto valere quanto scritto prima, alla luce delle nuove acquisizioni scientifiche. 

Infine, la rilevanza e gravità dell’affermazione del produttore dei vaccini di cui sopra, avvenuta in tempo ampiamente utile perché la Corte ne tenesse conto, è un dato che, più che natura scientifica, ne assumeva di confessoria, e che di certo avrebbe potuto e dovuto sollevare quel legittimo dubbio sulla medesima effettività dell’obiettivo perseguito, la prevenzione dal contagio, tale da incidere sulla decisione della Consulta nel senso dell’illegittimità, almeno, della mancata erogazione degli emolumenti anche se, magari opportunamente, si fosse voluto evitare di gravare il giudizio di un’istruttoria per acquisire tutti i dati necessari e aggiornati al momento della decisione.
Del resto, in fattispecie che abbiano avuto uno svolgimento prolungato e ben successivo al momento in cui certi dati scientifici furono valutati dal legislatore, con il protrarsi di conseguenze sui cittadini, se la Corte Costituzionale non decidesse sulla base dei dati disponibili al momento della sua pronuncia, e comunque successivi a quelli originari, non si vede proprio come potrebbe effettuare quel controllo di rispetto dell’evoluzione scientifica da parte del legislatore medesimo che, pure, così fortemente proclama e ribadisce. 

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